lunedì 27 marzo 2017

La Comunicazione interna: verso una infrastruttura tecnica e culturale condivisa



Relazione al seminario Internal Corporate Communication, Dipartimento di Management, Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale, Università degli Studi La Sapienza, Roma, 27 marzo 2017.
 

La Comunicazione interna: verso una infrastruttura tecnica e culturale condivisa[1]

Stefano Martello[2]

***************

Buonasera a tutti,
prima ancora di concentrarci sulla protagonista di questo incontro – la comunicazione interna – è importante definire un macro concetto che riguarderà tutta la trattazione; secondo Deirdre Quinn-Allan e Mark Sheehan, autori dell’ottimo Crisis communication in a digital world (Cambridge University Press, 2015) uno degli obiettivi principali di ogni organizzazione rimane la tutela della sicurezza delle persone. Dietro l’apparente semplicità dell’osservazione si cela un principio basilare che riguarda ogni persona che gravita nell’orbita dell’organizzazione, a prescindere dal loro status o grado o dal tipo di legame con l’organizzazione stessa.
Questo macro concetto influenza la visione stessa della comunicazione interna; i suoi doveri, le sue funzioni e la sua stessa applicazione.

Ricordiamo tutti le immagini che invasero i televisori di tutto il mondo all’indomani della caduta di Lehman Brothers, all’inizio della crisi finanziaria del 2008[3]. Mentre guardavo quegli uomini e quelle donne uscire dalla sede di uno dei più antichi istituti finanziari americani con i loro scatoloni di ricordi e, presumibilmente, di aspettative deluse, mi colpì molto l’espressione dei loro visi. Non sembravano arrabbiati; alcuni di loro riuscirono anche ad abbozzare un sorriso mentre rispondevano alle domande dei tanti giornalisti in attesa. Sembravano, piuttosto, sorpresi da un epilogo così drammatico, così poco comprensibile per un istituto che, fino a quel momento, aveva rappresentato una delle certezze più granitiche del mondo finanziario. Come era possibile non aver avuto il minimo sentore di quello che stava accadendo? Anche considerando il fatto di non poter conoscere – persino da interno - ogni singola vicenda di una organizzazione così vasta, come era stato possibile non rendersi conto di una situazione così deteriorata?
Vorrei che rifletteste su questa domanda perché questo è il punto centrale della questione di cui oggi stiamo dibattendo: quanto della sfera teorica della comunicazione interna riesce concretamente ad influenzare le condotte e, più in generale, il clima organizzativo di una qualsiasi organizzazione?
Sappiamo che, in questi ultimi anni, la comunicazione interna si è evoluta a tal punto da guadagnare risorse e competenze e professionisti ad hoc. Sappiamo anche quali sono i suoi rinnovati obiettivi: garantire la coerenza tra i valori di cui l’organizzazione si dichiara portatrice ed i suoi effettivi comportamenti (cfr. Building Belief, Arthur Page Society, 2012[4]); allineare le strategie di comunicazione esterna ed interna (cfr. Stockholm Accords, 2010[5]) e, più in generale, tutelare la relazione fiduciaria tra ogni appartenente all’organizzazione (a prescindere dalle mansioni e dal livello gerarchico) con il vertice della stessa.
Sappiamo anche che tutto questo ha un ritorno importante rispetto alle logiche di produttività e crescita. Chester Elton e Adrian Gostick – due tra le voci più influenti sulle tendenze nei luoghi di lavoro – spiegano nel loro libro Impegno Totale (FrancoAngeli, 2013) come sia fondamentale non solo fornire strumenti ed ascolto ai dipendenti per permettere loro di destreggiarsi tra le difficoltà dei loro incarichi (cd. Enablement) ma anche far comprendere a ciascuno di loro che ogni singola mansione va a vantaggio di tutta l’organizzazione e quali sono le loro responsabilità nell’economia degli obiettivi finali (cd. Engagement). Ogni leader dovrebbe, così, dedicare il 75% del proprio tempo al coaching.
Si tratta di obiettivi e percentuali ambiziose e, nello stesso tempo, necessarie, soprattutto in un momento in cui i confini tra comunicazione interna e comunicazione esterna appaiono sempre più sfumati. Dunque, sempre più interconnessi.
E allora, se sappiamo come e cosa fare; se ne conosciamo i vantaggi e le necessità, perché ne stiamo parlando?
Sostanzialmente perché, se in molti ambiti alla teoria è seguita naturalmente l’applicazione, in Italia assistiamo ancora ad un duplice “scollamento”: per quantità, tra le grandi organizzazioni che bene conoscono i vantaggi di una corretta comunicazione interna e le piccole medie organizzazioni che ancora – salvo rari casi – la considerano una inutile perdita di tempo, considerando la retribuzione, il vincolo economico, come unico parametro; per qualità, tra chi non si preoccupa minimamente di applicarla, tra chi ne affida la funzione in maniera superficiale all’ufficio comunicazione o all’ufficio delle risorse umane e tra chi, al contrario, se ne occupa in maniera responsabile attraverso una applicazione quotidiana, personale e continua in ogni “angolo” dell’organizzazione, incluso il più recondito e periferico.
Il Reputation Manager Luca Poma ha definito la comunicazione di crisi come l’estensione della comunicazione di ogni giorno[6]; si tratta di una affermazione di buon senso che interpreta la crisi come elemento connaturato con la vita di una organizzazione complessa (sottraendola a quell’aurea fatalista a cui molti si “aggrappano” come alibi per non porre in essere condotte preventive e di monitoraggio) e responsabilizzando il management circa la necessità di un processo relazionale costante nel tempo.
Ma cosa accade se quel processo relazionale - già in “tempo di pace” caratterizzato da mancanze o miopie – viene “portato” in una situazione di crisi conclamata?
Molto probabilmente, quelle miopie e quelle mancanze influenzeranno la qualità della risposta, “appesantendo” non solo il processo di uscita dalla crisi ma anche il programma di rilancio dell’organizzazione. Ed è anche lecito pensare che questo sia solo il primo step di una crisi nella crisi, tale da “frantumare” la solidità interna dell’organizzazione, compromettendo il legame fiduciario tra le parti. Non dimentichiamo, in tal senso, come una crisi (ancora di più originata da un disastro naturale che colpisce un territorio, e con esso una comunità, non limitandosi al solo sito produttivo o direzionale  ma coinvolgendo, per esempio, anche le abitazioni delle comunità di riferimento) faccia emergere una serie di paure che spesso si sovrappongono. Solo per citare le paure emerse dall’esperienza emiliana, la perdita del proprio posto di lavoro ma anche la paura che l’azienda decidesse di trasferire altrove le proprie linee produttive, la paura per l’incolumità della propria famiglia ma anche la paura di perdere la casa.
Si tratta di timori legittimi che, troppo spesso, vengono sacrificati a vantaggio di una visione comunicativa che rassicura e dialoga solo con l’azionista o il cliente.
Con ripercussioni importanti non solo sul clima interno dell’organizzazione ma, ancora di più, sul recupero della business continuity che rappresenta il primo presupposto di uscita dallo stato di crisi e di rilancio post crisi.
Quali le possibili soluzioni?
Innanzitutto dobbiamo considerare le peculiarità di una crisi originata da un disastro naturale, l’ampiezza delle aree colpite e, nel contempo, degli interessi su cui l’evento impatta, rilanciando in capo al soggetto economico una responsabilità amplificata, non limitata ai soli elementi economici e produttivi, ma estesa a tutte le istanze provenienti dal territorio colpito in cui quella organizzazione opera.
Non si tratta di un compito semplice, ancora di più in uno stato di crisi conclamata, che esige risposte e condotte pronte e veloci. Ed è per questo che tale attività di ascolto deve essere pianificata e attuata prima di una crisi, per avere il tempo di strutturarsi tra i comportamenti aziendali trasformandosi in cultura e prassi aziendale.
Un esempio. Consideriamo il Crisis Team. Si tratta di un pool di competenze interne all’organizzazione che viene identificato e successivamente aggregato con il solo scopo di fronteggiare una possibile crisi. Non a caso, uno dei suoi compiti più importanti riguarda proprio l’analisi delle aree vulnerabili dell’organizzazione, per scongiurare crisi potenziali. Ma il Crisis team è fondamentale anche nelle logiche di comunicazione interna, in quanto detiene il controllo esclusivo di tutte le attività di gestione della crisi, consentendo all’organizzazione di proseguire in quelle attività routinarie e quotidiane e, nel contempo, detenendo il flusso informativo in entrata ed in uscita in maniera univoca e credibile.
Non si può pensare di costituire un Crisis team nell’imminenza di una crisi o, addirittura, a crisi già conclamata perché si tratterebbe solo di un gruppo di persone non adeguatamente formate o addestrate di fronte ad una responsabilità più grande di loro. La cui azione è destinata al fallimento o, nel migliore e più fortunato dei casi, ad una guerra da trincea, per proteggere una posizione statica.
Senza contare che un Crisis team adeguatamente formato è in grado di individuare tutti i pubblici di ascolto predisponendo per ciascuno strumenti e condotte relazionali ad hoc. Superando il rischio di un ascolto disordinato e casuale, obbligato proprio dalle contingenze del momento a selezionare i pubblici più rilevanti sacrificando tutti gli altri.
La capacità di gestire al meglio l’ascolto organizzato diventa, così, non solo una risorsa tecnica per favorire un più veloce ritorno alla normalità, ma anche un potente volano psicologico e relazionale per contrastare quelle stesse paure e quelle stesse dinamiche emozionali che delle paure sono inevitabile conseguenza. Il caso dell’Aquila è emblematico[7]. A fronte di un sistema fortemente centralizzato che non ha tenuto in debita considerazione i decisori locali e la comunità, è emersa una narrazione[8] parallela, alimentata da chi, in quel momento, provava timori a cui non veniva data voce e ascolto. E se da una parte questa narrazione ha arricchito il flusso comunicativo, dall’altra ha anche originato una deriva generalista e populista che ha allontanato l’attenzione da criticità ben più sostanziali ed urgenti nel processo di gestione della crisi[9].
Qualcuno potrebbe obiettare come improprio l’accostamento tra una comunità sociale ed una comunità d’impresa, ma di fatto è così. Anche l’impresa esprime, come un qualsiasi territorio, aspettative, ambizioni, necessità e paure. Aggiungo, estremamente diversificate tra loro. Ma tutte, nessuna esclusa, interessate da quella fase di ascolto che non può e non deve essere parziale.
Volendo provare a riassumere quanto emerso da questa breve chiacchierata, le parole chiave sono “connessione” e “sincerità”.
La comunicazione interna non rappresenta più solo uno strumento di governo dell’organizzazione ma amplifica la propria portata, divenendo primo passo di un processo relazionale più ampio, che contamina la portata e la resa della comunicazione esterna. Ma perché accada questo, è fondamentale che il clima comunicativo interno non sia improvvisato o casuale o indotto da particolari circostanze. Bensì continuamente implementato, tutelato e monitorato, fino a divenire parte integrante della cultura aziendale.
La sincerità rappresenta una risorsa altrettanto importante, soprattutto in questa epoca che privilegia la forma alla sostanza. Un piccolo esempio dal passato. La situazione bellica non si è sviluppata necessariamente in favore del Giappone.[10] Il testo del breve comunicato con cui l’imperatore Hiroito annuncia al proprio popolo, il 15 agosto 1945, la resa del Giappone agli Stati Uniti, sembra scordare 2 città atomizzate, la distruzione della forza industriale del Paese e la morte di quasi una intera generazione di giovani. Sono solo una serie di parole messe una dopo l’altra, l’assolvimento di un compito più che un atto di attenzione e responsabilità nei confronti del dolore di un popolo sconfitto.
Tra pochi minuti il mio amico e collega Biagio Oppi vi illustrerà una case history di buona comunicazione interna, ma questo non può e non deve impedirci di abbassare la guardia nei confronti di un gap ancora troppo evidente. Ancora troppo capace di influenzare negativamente la ripresa di una organizzazione.
E siccome abbiamo iniziato con un esempio che tutti conoscono, vorrei concludere con le parole che il Ceo di Lehman Brothers Richard Fuld scrisse al proprio pubblico interno all’indomani della caduta:
Gli ultimi mesi sono stati difficili in misura estrema e sono culminati con il nostro fallimento. È stato molto doloroso per tutti voi, sia dal punto di vista personale sia da quello finanziario. Per questa ragione mi sento malissimo.[11]
Queste stesse parole – dettate anche dalla innegabile pressione ma nel contempo assolutamente inadeguate rispetto all’impatto dell’evento nella vita di moltissime persone – dimostrano inequivocabilmente che c’è ancora molto da fare.
Forse non in termini tecnici.
Sicuramente a livello culturale e sociale.

Grazie per la Vostra attenzione


[1] Relazione al seminario Internal Corporate Communication, Dipartimento di Management, Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale, Università degli Studi La Sapienza, Roma, 27 marzo 2017.
[2] Stefano Martello (1974) è giornalista e consulente in comunicazione. Autore di numerosi testi sui temi della comunicazione integrata, ha curato, con Biagio Oppi, Disastri naturali: una comunicazione responsabile? Modelli, casi reali e opportunità nella comunicazione di crisi, Bononia University Press, 2016.
[3] Sul tema, utilissima la consultazione di A. Ross Sorkin, Too Big to Fail, De Agostini, 2010.
[4] Per maggiori informazioni sull’Arthur Page Society, organizzazione che riunisce i Chief Communication Officers delle principali aziende statunitensi, http://www.awpagesociety.com.
[5] Per un approfondimento può essere utile la consultazione del sito della Global Alliance for Public Relations & Communication Management (federazione mondiale delle associazioni di relazioni pubbliche e comunicazione) http://www.globalalliancepr.org.
[6] L. Poma, La comunicazione di crisi. Il Crisis Management, in S. Martello, B. Oppi (a cura di), Disastri naturali: una comunicazione responsabile? Modelli, casi reali e opportunità nella comunicazione di crisi, Bononia University Press, 2016, p. 14.
[7] Per un approfondimento sulle dinamiche comunicative poste in essere durante le esperienze dell’Aquila e dell’Emilia Romagna, M. Alesii, I terremoti dell’Aquila e dell’Emilia: due crisi a confronto, in S. Martello, B. Oppi (a cura di), Disastri naturali: una comunicazione responsabile?, op. cit., pp. 49-64.
[8] Lo storytelling, nato negli Stati Uniti nella prima metà degli anni novanta del secolo scorso, si è progressivamente affermato come strumento trasversale di dialogo con ogni tipologia di interlocutore. Particolarmente interessante appare il superamento di un modello esclusivamente informativo a vantaggio di una vera e propria relazione bidirezionale in cui l’interlocutore diventa parte attiva e partecipativa. Una buona lettura di avvicinamento al tema è AA.VV., Dallo storytelling alla narrazione d’impresa, Relazioni Pubbliche, anno XX, n. 63, 2010.
[9] Sul tema – sia pure limitatamente al fenomeno dei social media - interessante l’intervento di M. Alesii, I social nella gestione della crisi, in S. Martello, B. Oppi (a cura di), Disastri naturali: una comunicazione responsabile?, op. cit., pp. 65-73.
[10] Fonte: A. Roberts, The Debt Japan Owes These Men, Daily Mail, 17 settembre 1993.
[11] Fonte: S. Saitto, Y. Onaran, Fuld Tells Lehman Employees He Feels “Horrible” for Their Pain, Bloomberg, 17 settembre 2008.

Breve bibliografia di riferimento

Benson, C.; Clay, E.J., Understanding the Economic and Financial Impacts of Natural Disasters, in Disaster Risk Management Working Papers 4, Washington D. C., The World Bank, 2004;

De Maria, C. (a cura di), Bologna futuro: il modello emiliano alla sfida del XXI secolo, Clueb, 2012;

Geipel, R.; Pohl, J.; Stagl, R., Opportunità, problemi e conseguenze della ricostruzione dopo una catastrofe. Uno studio nel lungo periodo sul terremoto in Friuli dal 76 all’88, Aviani Editore, 1990;

Lagadec, P., Crisis management, FrancoAngeli, 2002;

Muzi Falconi, T., Gorel. Governare le relazioni, Il Sole 24 Ore, 2004.

Muzi Falconi, T., Global Stakeholder Relationships Governance. An Infrastracture, Palgrave MacMillan, 2013.

Norsa, L., Crisis Management, Edizioni Simone, 2002.